L’Akp ha vinto le elezioni dopo una campagna elettorale volta a sottolineare il possibile sprofondamento del paese in un clima sempre più teso e instabile. Gli avversari principali avevano un nome chiaro: Hdp, spesso identificato come partito pro-curdo. Prima delle elezioni il “fattore curdo” sembrava essere una delle variabili che più avrebbe influenzato il voto. Le scelte politiche di Erdoğan dettate dai timori di perdere peso, adesso che il suo partito sembra aver ripreso in mano le redini del potere, potrebbero ora far prendere una nuova direzione ai rapporti con i curdi. Erdoğan potrebbe tornare a occuparsi del dossier Kurdistan, tramite investimenti per lo sviluppo delle aree del sud-est e maggiori garanzie di diritti per la comunità curda. Ankara deve cessare di mostrarsi ostile ai curdi che, fuori dalla Turchia, sono impegnati nella lotta contro IS.
L’unico dato certo e rilevante delle elezioni tenutesi ieri in Turchia, è che Erdoğan ha vinto la sua scommessa. La campagna elettorale dell’Akp è stata condotta a suon di allarmi circa il possibile sprofondamento del paese in un clima sempre più teso e instabile, tra attentati terroristici e censure contro parte del sistema mediatico. Gli avversari principali – se non veri e propri nemici, visti i toni utilizzati durante la campagna dal presidente – avevano un nome chiaro: Hdp. Si tratta del partito guidato da Selahattin Demirtaş, spesso identificato come partito pro-curdo, dal momento che la sua base elettorale è concentrata nelle aree del sud-est a maggioranza curda, ma in realtà espressione di un malessere e di un’opposizione all’Akp che va oltre l’identificazione con la causa curda e include il movimentismo di sinistra e altre forme di opposizione al sistema neo-liberale imposto al paese negli ultimi anni. L’Hdp ha subìto un’emorragia di voti (circa un milione in meno rispetto alle elezioni dello scorso giugno) che, sebbene non gli abbia negato di superare la soglia del 10% per entrare in parlamento (un risultato che comunque, fino a pochi mesi fa, sembrava impensabile), non gli ha permesso di togliere abbastanza voti all’Akp, tali da evitare che quest’ultimo avesse i numeri per formare un governo monocolore. Certo, anche il calo dei nazionalisti del Mhp ha fatto sì che Erdoğan si svegliasse stamani con una maggioranza assoluta di 315 deputati, ma quel 3% in meno di voti conquistati dall’Hdp risalta maggiormente, proprio per la valenza simbolica del partito filo-curdo. Prima delle elezioni il cosiddetto “fattore curdo” sembrava essere una delle variabili che più avrebbe influenzato il voto, così come i futuri equilibri del paese. Oggi è lecito chiedersi: cosa ne sarà dell’annosa questione curda in Turchia?
Sebbene siano forti i timori che la situazione possa nuovamente degenerare nel sud-est della Turchia, e nonostante ieri vi siano già stati alcuni scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, oltre a denunce di brogli, una prima risposta a tale quesito potrebbe paradossalmente essere che la situazione adesso potrebbe migliorare. Le vicende politiche e di sicurezza della Turchia negli ultimi anni sono state sempre indissolubilmente legate alla percezione che l’Akp aveva rispetto al rischio che avrebbe corso dalla propria sconfitta, o quanto meno messo in discussione. Dopo i fatti dell’estate del 2013 a Gezi Park, complice anche un clima regionale molto più teso che vedeva Ankara isolata rispetto a molti vicini (l’Egitto di al-Sisi, la Siria di Assad in guerra civile, Israele e l’Iran), Erdoğan aveva cominciato a dare i primi segnali d’insofferenza alle critiche. Le manifestazioni di piazza sono state duramente represse, alcuni giornali chiusi e molti giornalisti arrestati e, durante la campagna elettorale dello scorso giugno, vi era stata una serie di attacchi indiscriminati contro le sedi locali dell’HDP, identificato come il nuovo nemico interno. A seguito delle elezioni di giugno, il confronto tra governo e comunità curda si è fatto ancora più duro, divenendo vero e proprio scontro: l’Akp ha sfruttato l’occasione per effettuare bombardamenti contro lo Stato Islamico (IS) in Siria e Iraq a colpire postazioni curde legate al Pkk, e la tregua tra quest’ultimo e stato turco, firmata nel 2013, si è inevitabilmente interrotta. Da quel momento abbiamo assistito a una nuova escalation di violenze, con raid turchi contro militanti del Pkk (e, in alcuni casi, civili curdi) e attentati contro soldati turchi da parte dei guerriglieri curdi. L’attentato di Ankara dello scorso 10 ottobre, che ha provocato più di 100 vittime, ha costituito l’apice del clima di terrore che andava instaurandosi. Proprio a causa della paura diffusa, molti elettori, tra cui probabilmente anche una parte dell’elettorato curdo, ha scelto la strada della stabilità, incarnata dalla conferma dell’AKP come primo e incontrastato attore della politica turca.
Se, come detto, le scelte politiche di Erdoğan sono state dettate dai timori di perdere peso, adesso che il suo partito sembra aver ripreso in mano le redini del potere, anche i rapporti con i curdi potrebbero nuovamente cambiare. Del resto, era stato proprio il presidente turco, nel periodo di massima popolarità interna, a concedere delle significative aperture ai curdi e a promuovere quel dialogo con il Pkk – osteggiato dagli ambienti più nazionalisti – nell’ottica di una normalizzazione dei rapporti. La storia, dunque, insegna che Erdoğan è intento a dialogare solo quando si sente inattaccabile. Se i suoi timori dovessero svanire dopo le elezioni di ieri, è dunque probabile che possa cercare di ricucire lo strappo con i curdi e tornare a occuparsi del dossier Kurdistan, tramite investimenti per lo sviluppo delle aree del sud-est e maggiori garanzie di diritti per la comunità curda. Pesano però due incognite, una legata alla risposta del Pkk al risultato elettorale e l’altra alle azioni di Ankara contro i curdi siriani, alleati del Pkk. Quest’ultimo, infatti, resta ancora diviso al suo interno tra un’ala più moderata e disposta a trattare con lo stato, e un’altra decisamente più intransigente e oltranzista, che mira a far fallire il dialogo. Se questa venisse nuovamente messa in minoranza, si prefigurerebbe una nuova stagione di negoziati interni. In seconda battuta, però, occorrerà che Ankara cessi di mostrarsi ostile ai curdi che, fuori dalla Turchia, sono impegnati nella lotta contro IS. Resta però un problema di fondo, che potremmo definire di metodo: quanto potrà reggere un dialogo tra Turchia e curdi basato quasi esclusivamente sui calcoli interni di Erdoğan?
Stefano M. Torelli, ISPI Research Fellow