La “normalizzazione” Usa-Cuba spaventa Caracas | ISPI eugreendeal
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“Gli unici a preoccuparsi per il miglioramento delle relazioni fra Washington e L’Avana sono stati i venezuelani”. La frase, pronunciata dal segretario di Stato John Kerry di fronte al Senato, il 24 febbraio, non è completamente vera, ma sottolinea un effetto collaterale rilevante del processo di avvicinamento fra i due ex nemici giurati. Anche i repubblicani, gli esuli cubani di Miami e una parte minoritaria del dissenso subiscono con evidente fastidio il “nuovo corso”. È indubbio, però, che a dispetto delle dichiarazioni ufficiali del presidente Nicolás Maduro, lo spettro della “normalizzazione” cubano-statunitense inquieta non poco il già malfermo governo di Caracas. Come è vero che  il “fattore Venezuela” è stato determinante, suo malgrado, a rendere più malleabile Raúl Castro verso il “potente vicino del Nord”.

Dal 1999 fino al 2013 – cioè dall’ascesa fino alla morte di Hugo Chávez – Cuba è stato il principale sostenitore della Rivoluzione bolivariana. E non solo per affinità ideali. L’isola aveva perso meno di dieci anni prima il suo puntello, sbriciolatosi insieme al muro di Berlino: l’Unione Sovietica. In clima di Guerra Fredda, il Cremlino è stato finanziatore per eccellenza dell’alleato caraibico. Nonostante le spese non proprio oculate del Líder Máximo, Fidel Castro, il mecenate sovietico aveva sempre patrocinato le imprese del suo “golden boy” tropicale. Mosca assorbiva il 63 per cento delle esportazioni di zucchero – comprato a “prezzi agevolati” [1], cioè più alti del valore di mercato –, il 95% di quelle di agrumi e il 73 di nichel [2]. Il petrolio “socialista” a basso costo era il motore energetico del sistema cubano. Almeno fino a quando il tramonto dell’Urss non ha messo fine a questa “relazione privilegiata”. Dalle 13 milioni di tonnellate di greggio del 1989 – solo per fare uno fra i molti esempi – si è passati ai 5,3 milioni del 1993. Abbandonato a se stesso, il castrismo ha dovuto guardarsi intorno, alla ricerca di “nuovi amici” (e protettori). Nel frattempo, Cuba ha vissuto l’era drammatica del “periodo especial”, con black-out quotidiani (apagones), i negozi vuoti come le casse dello Stato. Poi, a Caracas, è stato eletto presidente un parà folgorato dal mito di Bolívar, deciso a ridare smalto al socialismo e a proiettarlo nel XXI secolo. Fidel non si è fatto sfuggire l’occasione e ha subito proclamato Chávez suo erede. L’asse L’Avana-Caracas ha fatto affluire nell’isola tra i 53 e i 120mila barili di petrolio al giorno. In cambio, dal 2003, medici e personale specializzato cubano sono stati il fulcro delle “misiones” chaviste: quell’anno, 44mila dottori, infermieri, dentisti, anestesisti sono partiti per il Venezuela per sostenere i programmi sanitari creati dal governo nelle baraccopoli. Tuttora, attualmente, 30mila operatori cubani sono impegnati in progetti dall’esecutivo Maduro. Oltre alle forniture di petrolio, quest’ultimo paga all’alleato circa 4mila dollari per impiegato: di questi poco più di 100 dollari finiscono nelle tasche del lavoratore. Il resto rimpingua le magre finanze cubane.

Il crollo del prezzo del greggio – dimezzato in due anni – dopo la morte di Chávez, però, ha rovinato la “fiesta”. Il successore Nicolás Maduro, in crisi di liquidità, ha cominciato a “chiudere i rubinetti”. Prima ha ridotto le forniture di greggio, passando nel 2014 a 80mila barili quotidiani. Poi, ha tagliato parte del personale impiegato nelle “misiones”. Non sorprende, dunque, che Raúl Castro si sia sentito cedere il terreno sotto i piedi e abbia acconsentito di buon grado ad un riavvicinamento strategico con gli Usa, ora governati da un democratico al secondo mandato, dunque più propenso a gesti audaci. L’annuncio congiunto del 17 dicembre ha prodotto un’ondata di entusiasmo in America Latina. Tutti i paesi hanno festeggiato. E in generale c’è poco da dubitare sulla sincerità di quei proclami: l’esclusione di Cuba era un anacronismo storico e un inutile spreco di opportunità economiche per la regione, proprio nel momento in cui l’apertura al mercato della Revolución poteva offrire prospettive interessanti. Anche Maduro ha celebrato la notizia. Nel suo caso, però, qualche dubbio sulla veridicità dell’enfasi profusa è lecito. Oltre che confermato da fonti vicine all’esecutivo. L’attuale presidente venezuelano è sempre stato considerato il più vicino all’Avana dell’entourage chavista. È naturale che quest’ultimo possa avere interpretato il riavvicinamento agli Usa come un tradimento dell’alleato. Proprio ora che la Revolución bolivariana, senza il suo fondatore Chávez e con il petrolio a prezzi stracciati, vive il suo momento più difficile. Il sogno dell’Alianza bolivariana come alternativa all’Organizzazione degli stati americani è tramontato. Ecuador e Bolivia hanno moderato, negli ultimi tempi, i toni “anti-yanqui”. Il Venezuela, dunque, rischia di trovarsi da solo nel suo anti-imperialismo feroce. Il rischio di implosione è evidente. Non a caso, la parte più radicale dell’opposizione ha rilanciato lo slogan delle dimissioni immediate di Maduro.  

La storia latino-americana, però, insegna quanto i governi populisti siamo capaci di “adattarsi” al contesto. Non è da escludere, cioè, che il bolivarismo si riveli quanto e più pragmatico dello stesso castrismo. E riesca in qualche acrobazia geopolitica. Magari, rimuovendo le figure più “compromesse”. E chiedendo stavolta all’Avana di fargli da ponte con il comune, vecchio, ex nemico.

 

Lucia Capuzzi, giornalista, lavora nella redazione Esteri di Avvenire.



[1] Se nel 1990 aveva incassato 602 dollari a tonnellata, due anni dopo ne ricevette un terzo. Si veda R.W. Gott, Storia di Cuba, Mondadori 2008.

[2] Luís Suárez Sálazar, Cuba: aislamiento o reinserción en un mundo en cambio, La Habana, 1997.


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