La nomina del trentunenne Mohammed bin Salman a nuovo principe ereditario al trono dell’Arabia Saudita rappresenta l’ennesimo, e forse decisivo, segnale del cambiamento in atto nel regno dei Saud. Se il cambio di passo a Riyadh si annunciava da anni, almeno fin dall’insediamento nel 2015 dell’anziano re Salman (che non ha mai fatto mistero di vedere nel figlio Mohammed il suo erede prediletto), nel corso degli ultimi mesi gli eventi hanno subito una notevole accelerazione, e hanno riguardato non solo la casa reale, ma l’intera regione del Golfo: dal lancio, pochi giorni dopo la visita di Donald Trump, di una campagna a guida saudita volta a isolare il piccolo emirato del Qatar, alla sostituzione nel pieno delle notte del precedente principe ereditario Mohammed bin Nayef. Si aggiungano il primo attentato terroristico dell’ISIS in Iran e lo sventato attacco di pochi giorni fa alla Grande Moschea della Mecca. Avvenimenti apparentemente sconnessi, ma susseguitisi in una rapida sequenza che sembra fare emergere la crescente centralità della regione del Golfo nella geopolitica del Medio Oriente di oggi, e con ogni probabilità del prossimo futuro. Mentre l’Arabia Saudita appare sempre più impantanata nella sanguinosa guerra in Yemen e al tempo stesso si prepara ad avviare un ambizioso programma di riforme ("Visione 2030") per diversificare la propria economia di rentier state — due iniziative ispirate e orchestrate proprio dal carismatico bin Salman — il passaggio del testimone a Riyadh e la rottura della tradizionale ‘cautela’ saudita nella propria politica di vicinato segnano l’inizio di una nuova stagione per il paese. Una stagione dagli sviluppi ancora indefiniti ma le cui ripercussioni, soprattutto sugli equilibri regionali, potrebbero essere forse dirompenti, proprio a partire dal Golfo.